26 marzo 2024

Le regole della vendetta di Fulvio Luna Romero

 


Prologo 

Finalmente l’aria gelida ha smesso di soffiare sul litorale. L’uomo beve l’ultimo sorso di caffè davanti alle vetrate del suo attico affacciato sulla spiaggia, guardando alcune persone che portano a spasso i cani sulla sabbia.[..] Non fa ancora così caldo da tuffarsi in mare, ma una passeggiata con la giaca slacciata si può fare, soprattutto ora che è cessato quel vento da est, di solito assente in questa stagione. Una doccia e si veste: ha un appuntamento al quale non può mancare.

Secondo capitolo della trilogia dello scrittore veneto Fulvio Luna Romero, Le regole della vendetta riparte da dove era finito il primo romanzo, Le regole degli infami, ma con un continuo avanti e indietro nel piano cronologico degli eventi, un approccio che può essere spiazzante ma che è funzionale a raccontare gli intrecci tra i personaggi e da dove nasce questa vendetta che da il titolo alla storia.

Nel prologo c’è un uomo che si appresta ad un appuntamento importante, l’ultimo della sua vita purtroppo. Perché viene ucciso e perché in quel modo?

Cinque anni prima 

«118, buonasera.»

«Sì, buonasera, signora… ’A me scusa… chiamo qua da Cavaiino.»

La voce di un uomo avanti negli anni, con la cadenza marcata e la tipica deferenza della persona del Nordest che si approccia all’autorità

In un salto indietro nel tempo c’è un altro personaggio, ferito in un lago di sangue: qualcuno, sentendo gli spari che lo hanno colpito, ha scelto di non far finta di niente (che si ammazzino tra di loro) e di chiamare il 118. Chi è questa persona?

Veneto orientale.

Oggi La sveglia suona alle 6.30 mandando la musica di Twin Peaks dal cellulare. Accade tre giorni alla settimana, quando Susy, sua moglie, è di turno al supermercato per lo scarico merci.

Maicol Biasin è un autista di pullman, un signore come tanti: una moglie e una figlia, una vita comune. È il suo vero lavoro a non essere un lavoro comune. Quel lavoro che non può raccontare a nessuno e che gli garantisce delle entrate extra in nero. Per andare avanti e indietro da Mestre a Nova Gorica, poco fuori il confine con la Slovenia: o c’è dell’altro dietro?

Orio al Serio (Bg).

Quattro anni prima

Il tizio è un magrebino anonimo. Si muove con un piccolo bagaglio a mano giusto per non dare nell’occhio. L’hanno recuperato all’aeroporto, volo in arrivo da Belgrado.

Un corriere della droga che arriva dall’est e che viene recuperato da due pesci piccoli della rete, un uomo e una donna. Qualcosa va storto però e l’uomo muore con gli ovuli nell’intestino. Ovuli che vanno recuperati grazie all’aiuto di un medico con pochi scrupoli. Come pochi scrupoli devono avere queste due persone, un uomo e una donna, perché sanno come vanno le cose nel traffico della droga. Gli scrupoli servono a poco.

Veneto orientale. Oggi

«Virgilio, davvero non possiamo. Hai già tutti i fidi utilizzati a tappo. Uno sconfino non me lo autorizzano. E se anche me lo autorizzassero, ci vorrebbe del tempo.

Virgilio Casale è un piccolo imprenditore, uno dei tanti che ha accumulato una fortuna negli anni del boom del nordest come artigiano del lusso e che è riuscito a sopravvivere alla crisi del 2008 grazie alle scorte di nero. Ma oggi le cose stanno andando male, alcuni lavori con l’amministrazione pubblica non sono stati pagati e c’è la banca che chiede il rientro dello scoperto.

Come fare allora? Qualcuno gli suggerisce di rivolgersi a una certa società Finanziaria che si farà meno problemi nel prestargli dei soldi. In cambio di cosa, però?

Casale fissa il denaro con gli occhi sgranati. Questa gente arriva da lui, il titolare di un’azienda in difficoltà, e a fronte di una firma su un foglio mette sul tavolo centocinquantamila euro in contanti.

Jesolo oggi.

Dopo la fine dell’azienda di Andrea Salvi, morto in un gioco di tradimenti e di infami, dove ad un certo punto non si capiva chi stesse tradendo chi, la piazza di Jesolo è finita nelle mani del boss Di Paola, il muratore venuto su dalla Calabria e che ha sfruttato le sue parentele per portare qui i traffici criminali che bene hanno attecchito nel territorio veneto. Come lo spaccio della droga che, sulla piazza, è gestito dai fratelli Vianello, i “duri”, perché duri di comprendonio. Ufficialmente gestiscono un chiosco, ma tutti sanno che è solo una facciata.

Lavorano per conto di Di Paola per gestire lo spaccio a livello locale, ma solo uno degli ultimi livelli della catena predatoria: a fianco al boss sono altre le persone di fiducia che possono sedersi a tavola.

Come l’avvocato Lunelli, principe del foro e avvocato del boss. Edoardo Aricò, cugino del boss, che segue il business redditizio dello smaltimento dei rifiuti, con tanto di aiuti comunitari, rifiuti che invece di essere smaltiti secondo le regole finiscono dentro capannoni abbandonati, ricordi del passato industriale del Veneto. E quando qualcuno, i carabinieri, la finanza, decide di fare un controllo, basta appiccare un bell’incendio.

Arianna Marino è una “ex manager sfrontata e impavida di varie aziende commerciali”, esperta in riciclaggio, nel creare le strutture societarie fittizie per giustificare i giri di denaro e beni nascondendo i beni allo stato.

Infine, Tiziano Rossi, il broker della droga, “uno dei più potenti broker europei nell’ambiente del traffico internazionale di stupefacenti”, con contatti ovunque, sia coi produttori di coca e eroina, sia nel mondo della “logistica” ovvero persone in grado di organizzare il trasporto della droga.

Sono passati cinque anni dalla fine dell’azienda di Salvi, da quella scia di omicidi che avevano insanguinato le strade di Jesolo, suscitando uno scandalo subito quietato da parte della politica, perché tanto sono criminali, meglio non chiedersi come sia stato possibile che la mafia si fosse così radicata in mezzo alla brava gente.

Ma c’è una donna che ancora non ha dimenticato quelle morti, la perdita dei due uomini più importanti della sua vita, l’uomo che amava e il fratello, ucciso in uno scontro coi carabinieri.

Una donna sa stare da sola, soprattutto quando è una sua scelta. Non ha bisogni, non sente doveri. Sceglie, e basta. Una donna può rimanere lucida per anni, e per anni non dimentica.

Valentina Luisetto non ha dimenticato. Una volta era lei la regina di Jesolo, essendo la donna di Andrea Salvi, il capo dell’azienda che aveva le mani in pasta in tanti settori, dalla droga alle costruzioni. Fino a che, in una terribile girandola di tradimenti, non era stato ucciso sotto casa.

Ora, passati cinque anni, un passo alla volta, la freddezza ha sostituito la rabbia e l’impulsività con cui aveva convissuto a lungo. Ora in lei vive la consapevolezza di avere ora uno scopo nella vita, riprendersi tutto quello che aveva, facendo la guerra a Di Paola, alla sua rete, ai suoi affari.

Ma per fare la guerra ad uno come Di Paola che, sebbene sia un cane sciolto, è comunque legato ai calabresi, devi avere una strategia, devi conoscere il nemico, i suoi punti deboli e, soprattutto, devi avere degli alleati alle spalle. Devi saper rinunciare a qualcosa della tua vita, pur di raggiungere la tua vendetta, sperando che non sia un prezzo troppo alto.

Pensa al suo passato, alla donna che è stata, ai tempi che non torneranno più, e per la prima volta ha paura che la sua vita non sarà come l’aveva immaginata, che passerà il proprio tempo a guardarsi le spalle

Le regole della vendetta fa un ulteriore passo in avanti rispetto al primo: come nei romanzi di Carlotto, le storie dell’Alligatore e quelle di Pellegrini, dove già si raccontava già del marcio dentro il nordest, del benessere, del boom dei piccoli imprenditori che hanno fatto spregio dell’ambiente, delle regole sociali, della ricchezza come unico obiettivo della vita, qui Fulvio Romero ci fa sedere allo stesso tavolo dei grandi pupari, quelli che muovono l’economia nera, hanno legami con la politica, decidono strategie. Il vero potere criminale che sa come spostare capitali senza lasciare tracce, come infiltrarsi nell’economia reale sfruttando i momenti di crisi, l’avidità delle persone, l’assenza di filtri morali (il richiamo del benessere), sia da parte della politica che da parte della società civile.

Anche i protagonisti di questa storia, pur nel loro essere spietati, nel voler portare avanti la loro vendetta, sono solo pedine di un gioco più grande che abbraccia non solo il Veneto, quel vasto territorio tra campi, costruzioni, lunghi rettilinei, ma tutto il paese.
Un gioco violento, dove non si guarda in faccia a nessuno, specie ai pesci piccoli, le piccole pedine che, come negli scacchi, sono le prime ad essere sacrificabili.

La scheda del libro sul sito di Marsilio
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

25 marzo 2024

Presadiretta autodifesa

La battaglia dei lavoratori dell’auto

Il viaggio nel mondo delle industrie, per capire qual è lo stato di salute, comincia a Detroit: qui la crisi ha colpito duro nel settore delle auto. Il maxi prestito di Obama salvò alcune aziende, come Chrisler, poi acquistata dalla Fiat di Marchionne.

Le aziende furono salvate, gli stipendi dei manager sono cresciuti ma non quelli degli operai: si è arrivati allo sciopero contro le big three (Ford, Stellantis e GM), con lo slogan “eat the rich”. Sei settimane di sciopero hanno portato ad un accordo storico: il sindacato e i lavoratori nei picchetti hanno ricevuto la solidarietà del presidente Biden, non di Trump, “a lui non interessa nulla dei lavoratori” risponde il segretario del sindacato UAW Shawn Fain.

Per gli operai non è mai tempo di chiedere aumenti di salari – si sente dire sempre così, anche in Italia: ma la battaglia del sindacato ha avuto ragione di questa sciocchezza, anche per le battaglie portate avanti contro gli scandali, contro un atteggiamento troppo amichevole con le aziende (voglio un sindacato grasso e docile diceva Marchionne). In Italia si direbbe un sindacato ideologico, ma è quello che serve per difendere i diritti e i salari, anche con scioperi pesanti che hanno causato perdite di profitti, stimati in 4,3 miliardi di dollari in quelle sei settimane.

L’aumento di salari è stato tra il 20 al 25%: sono soldi che consentono alle persone di poter vivere meglio, permettersi di pagare le bollette. Hanno ottenuto il ripristino del COLA, l’adeguamento degli stipendi con l’inflazione, benefici anche per i neo assunti.

Lo sciopero è stato vissuto con grande entusiasmo dai lavoratori, si sono sentiti uniti: hanno ricevuto il sostegno da parte di un fondo dello stesso UAW per mantenere le famiglie.

Anche la politica industriale di Biden ha fatto la sua parte: la sua amministrazione ha messo sul piatto un investimento da 750miliardi per la svolta green, investimenti in nuovi veicoli elettrici, purché prodotti in America. Così è stata supportata l’industria americana, anche con incentivi fino a 7500 dollari per veicoli elettrici e ibridi, tutto per mantenere la produzione negli Stati Uniti.

Stellantis voleva abbandonare lo stabilimento di Belvedere in Illinois: ma dopo le proteste dei lavoratori e del sindacato UAW hanno fatto cambiare idea a Tavares.

Mantenere aperte le fabbriche e aumentare i salari non ha mandato in bancarotta Stellantis né delle altre aziende: le aziende stanno cercando di risparmiare quei soldi con misure di efficientamento, che significa tagli ai posti di lavoro, anche se questo significa diminuire la sua forza lavoro.

È la solita avidità aziendale, i manager vogliono sempre più soldi nelle mani di poche – racconta a Presadiretta il segretario di UAW – che punta il dito contro le delocalizzazioni e che per questo propone un sindacato globale.

Stellantis in Italia

Il ministro Urso deve convincere Stellantis a rimanere in Italia e a mantenere gli stabilimenti aperti a Mirafiori, Pomigliano: il ministro vorrebbe puntare ad 1 milione di veicoli prodotti in Italia (oggi siamo a mezzo milione), ma senza la partenza di nuovi modelli è un obiettivo poco credibile.

Servirebbe un altro produttore di auto da fuori, ma l’AD di Stellantis ha già minacciato il governo italiano: c’è un braccio di ferro tra l’Italia e Stellantis che sta chiedendo incentivi e investimenti nelle infrastrutture.

I nuovi modelli di Stellantis, la topolino e la 600 elettrica saranno prodotti all’estero, mancano nuovi modelli prodotti in Italia.

Ad oggi gli unici investimenti di Stellantis su Mirafiori sono il Battery Technology Center dove si collaudano le batterie e l’hub per l’economia circolare, per il riciclo dei componenti. Torino non è più la capitale italiana dell’automotive: Edi Lazzi ha portato Presadiretta nella zona est di Torino, quella che era chiamata la Stalingrado italiana per la presenza di tante aziende nel settore dell’automotive, oggi però molte sono chiuse, per le delocalizzazioni di Stellantis.

Presadiretta è andata poi a Grugliasco davanti a quello che, secondo le intenzioni di Marchionne, doveva essere il polo del lusso, con la produzione delle Maserati, su cui si doveva basare la rinascita della Fiat Chrisler a Torino: oggi è tutto abbandonato, oltre le vetrine si intravede una macchina, rimasta là dentro dopo tutti questi anni. Si tratta del primo modello prodotto, con le firme degli operai: qui una volta lavoravano 2500 operai, ma un giorno in Fiat hanno deciso che questo fosse uno stabilimento di troppo, hanno trasferito le poche produzioni rimaste a Mirafiori. “Abbiamo visto chiudere centinaia di imprese” spiega a Presadiretta Edi Lazzi segretario generale della Fiom Cgil di Torino “ne abbiamo quantificato almeno 370 nel solo settore metalmeccanico, persone che hanno perso il posto di lavoro e che ancora oggi stanno facendo la cassa integrazione. E sembra che questo film dell’orrore non si fermi..”
Lo stabilimento della Maserati è stato messo in vendita da Stellantis sul sito di immobiliare.it, come fosse un edificio qualsiasi e non uno degli insediamenti industriali tra i più importanti dell’automotive italiana.

Alla Lear si producono sedili per le auto: i lavoratori sono oggi in presidio perché temono la chiusura dello stabilimento. Qui non si lavora proprio, come conseguenza di quello che sta facendo Stellantis, che porta il lavoro fuori da Torino e così si riduce il lavoro di tutto l’indotto. Fino a pochi anni fa non si trovava il parcheggio davanti la Lear, oggi invece il piazzale è vuoto: le persone davanti la fabbrica sono preoccupate, temono le delocalizzazioni e anche l’atteggiamento del governo, che non si rende conto della catastrofe.
I sedili della 500 elettrica sono realizzati da una azienda turca, che ha abbassato i costi, prendendosi la commessa.

Cosa si produce nell’hub dell’economia circolare inaugurato a fine dicembre del 2023 dove sono stati messi a lavorare 100 operai? Si recuperano pezzi, parti mobili, dei veicoli non marcianti – spiega a Presadiretta Alberto Pittarello operaio Stellantis – poi c’è il ripristino di veicoli marcianti con pochi km a cui viene data una rimessa a posto per essere rimesso in vendita.

Non era proprio la stessa mansione che aveva prima, quando lavorava per Maserati, dove montava le plance.

In questo hub Alberto, che ha 50 anni, è il più giovane: ci sono tutte persone che si apprestano ad arrivare alla pensione “a me piacerebbe girarmi e vedere che c’è un giovane di 26 anni, che subentra, giusto per avere lungimiranza, vuol dire che c’è un progetto ..”
Invece accanto ad Alberto non c’è nessuno.

Alcuni stabilimento producono più cassa integrazione che altro, come a Mirafiori: l’azienda Stellantis oggi sta incentivando i suoi dipendenti ad andarsene, – racconta un altro operaio “l’azienda sta dicendo, noi ti aiutiamo economicamente per uscire .. avessero investito gli stessi soldi che stanno investendo per far andar via le persone probabilmente facevano uno o due modelli nuovi.”

Tavares sta spingendo i suoi fornitori a ridurre i costi, andando a portare la produzione nei paesi a più bassi salari: si risparmia su tutto nell’era Tavares, anche su affitti, riscaldamento. Meglio produrre in India e in Asia, pur di avere costi inferiori: è una richiesta di mercato – giustifica il presidente della Sila Pavesio – ma questo significa produrre prodotti di qualità, rimanendo in Italia con la ricerca.

Ma ci sono aziende che hanno seguito Stellantis, andando a spostare la produzione all’estero, come AD Microchannell Devices.

Da Torino a Pomigliano: qui si producono 2500 veicoli, tra cui la Panda. Ma Stellantis ha fatto sapere che la nuova panda elettrica sarà prodotta in Serbia, il presidente serbo ha dato l’annuncio di fianco alla presidente patriota Meloni.

Quali prospettive rimangono per i 4200 operai di Pomigliano, a cui oggi viene chiesto di lavorare su turni massacranti?
La panda elettrica è fondamentale per mantenere l’occupazione in Italia: spostare la produzione in Serbia è uno schiaffo ai lavoratori, costretti a competere coi lavoratori serbi.

Presadiretta è andata a Kragujevac, città a circa 140 km da Belgrado dove ha incontrato Branko Vuckovic, giornalista locale, esperto di industria e automotive, che ha mostrato gli storici stabilimenti Zastava Fiat, oggi di proprietà di Stellantis. Ai tempi della Fiat nel parcheggio aziendale potevano stare solo le auto della Fiat e della Zastava, le auto di altri marchi dovevano sostare lontano e gli operai venire a piedi. Poi i capannoni costruiti per la Fiat 500, negli ultimi due anni la fabbrica è stata chiusa e hanno impiegato questo tempo per installare altre linee di produzione nello stabilimento. I lavori sono quasi pronti – racconta il giornalista serbo – e la produzione della nuova auto Fiat dovrebbe iniziare nel terzo trimestre di quest’anno. Al momento nella fabbrica ci sono 500 operai circa: solo loro che produrranno, secondo i piani di Stellantis, l’auto per tutte le tasche, la nuova Panda elettrica: “io parlo con la gente, sono sempre per strada, posso dirti che qui sono tutti molto felici che Stellantis abbia scelto Kragujevac per produrre il nuovo modello, perché l’auto elettrica rappresenta il futuro e questo porterà tanto lavoro per la città e per tutta la Serbia”.

Nel 1954 venne firmato il primo contratto tra gli Agnelli e la Zastava: l’amministrazione ha eretto un monumento alla Fiat, che ha poi salvato il marchio serbo quando stava per fallire. Lo stabilimento di Kragujevac ha comunque subito dei tagli, molti fornitori esterni hanno visto tagliarsi i contratti per la scelta di Stellantis di internalizzare la produzione di componenti.

Molti lavoratori di queste aziende, come la Adient, hanno così perso un lavoro: il processo di riduzione delle spese e di risparmio di Tavares non porterà nuovi posti di lavoro in Serbia, ad alcuni operai è stato proposto o di andare a lavorare all’estero, oppure di prendersi due anni di indennità.

Che accordo è stato firmato con Stellantis? Il governo serbo sta dando molti soldi a Stellantis per farla rimanere qui, come successo prima con Fiat: sono sovvenzioni per gli stipendi, infrastrutture, sconti al prezzo dell’energia.

Ma il punto centrale sono i salari bassi: sono 600 euro al mese per Stellantis, perché la Serbia rimane un paese a basso costo di lavoro (con cui noi italiani dovremmo fare concorrenza). Un paradiso per gli investitori, ma un inferno dei lavoratori, non si sopravvive con 600 euro al mese – raccontano a Presadiretta diversi sindacalisti intervistati.

Il contratto tra governo serbo e Stellantis è segreto: il giornalista Miletic racconta che in Serbia è normale che i cittadini siano tenuti all’oscuro di questi accordi, nascondendo quali siano i favori e i soldi dati a questa compagnia. Sta tutto nelle mani del presidente serbo: per ogni posto di lavoro il governo può sborsare fino a 130mila euro in dieci anni.

Di fatto, è il governo che paga i salari.

L’ex presidente Tadic ha firmato i primi accordi con la Fiat di Marchionne: all’epoca si pensava di attrarre investimenti tenendo bassi i salari.

Così oggi siamo arrivati ad una situazione che è prossima ad un ricatto: o tenete bassi i salari, o ci date incentivi, o noi ce ne andiamo.

Si chiama effetto della centralizzazione del capitale, come diceva Marx: i grandi produttori fanno la guerra ai piccoli, per eliminare la concorrenza.

Il professor Brancaccio ha spiegato a Presadiretta quali scenari potremmo avere: piegarci al liberismo o cambiare la politica europea di produzione, decidendo dove produrre e dove no, per ristrutturare il settore.

La guerra dei prezzi, già raccontata da Marchionne anni fa, farà fuori i piccoli produttori e in questa guerra ci troveremmo stritolati anche noi.

Nel frattempo in Italia continua la cassa integrazione e gli incentivi alle dimissioni.

4 giorni a settimana

Ma ci sono anche imprese che pensano che il loro successo sia legato anche al benessere dei loro dipendenti. Come Luxottica, simbolo del made in Italy: l’azienda fondata da Leonardo Del Vecchio, scomparso nel 2022, ha deciso di ridurre l’orario di lavoro, regalando del tempo ai propri dipendenti.

Quello della settimana corta, “time for you” è parte dell’accordo integrativo tra operai e azienda: i venerdì liberi saranno dedicati alla famiglia, negli altri giorni si potrà lavorare meglio perché più rilassati.

Si produrrà di meno? No perché si può organizzare il lavoro con anticipo, anche investendo con nuove assunzioni, magari di donne, perché la settimana corta favorisce anche la parità di occupazione.

Luxottica è stata la prima azienda a dare la mensa gratis, a dare rimborsi ai dipendenti, con borse di studio, con nuove forme di welfare: si può essere competitivi con meno ore di lavoro, con salari dignitosi.

Dopo Luxottica, Presadiretta è andata nello stabilimento di Lamborghini: qui non hanno aderito al jobs act e ora hanno puntato alla settimana corta.

Gli investimenti nella fabbrica consentono di recuperare le minori ore di lavoro: meno stress nella produzione, maggiore efficienza delle linee di produzione.

L’azienda da mezz’ora al giorno ai dipendenti, ha concesso lo smart working a tutti i dipendenti: qui è in corso una rivoluzione industriale, che una volta tanto non è ai danni di chi lavora.

Non si fa competizione al ribasso, spiega a Presadiretta il responsabile delle risorse umane: la settimana corta porterà ad un maggiore attaccamento al lavoro, una riduzione degli infortuni, maggiore efficienza.

Anche in Germania si sta sperimentando la settimana corta: lo chiedono i sindacati ad Amburgo nel settore metalmeccanico, ma anche in settori amministrativi.

In Spagna la settimana corta la sta portando avanti il governo: il ministro del lavoro parla di una rivoluzione del tempo, ridurre il lavoro a parità di salario.

Anche in Portogallo si sta portando avanti una sperimentazione, iniziata dal governo precedente, su aziende molto diverse.

Gli effetti sui dipendenti parlano chiaro: meno stress e maggiore soddisfazione, si cerca di far bene il lavoro con meno ore. Il tempo libero stimola la creatività, incentiva la formazione.

Non è una riforma né di destra né di sinistra – racconta l’economista portoghese Pedro Gomes a Presadiretta: la settimana corta è il futuro, ma la politica deve guidare il cambiamento, che non avverrà da solo.

La storia delle lavoratrici di La Perla

La battaglia delle lavoratrici del marchio La Perla è per tutti noi: sono due mesi che in pausa pranzo scendono in strada a far rumore, per attirare attenzione sulla loro situazione. Si parla di portar fuori la produzione, con tante incognite sul loro futuro: il fondo inglese Tennor ha comprato il marchio e lo scorso marzo è iniziato un tracollo della produzione, non ha mai fatto un piano industriale, ha aumentato l’indebitamento nei confronti dei fornitori.

La Perla è un marchio nato nel 1954, è un marchio noto per la qualità dei suoi prodotti.

Queste lavoratrici oggi provano un senso di rabbia per l’ingiustizia che stanno subendo, per come si sta distruggendo un patrimonio industriale e lavorativo.

Molte delle dipendenti non sono giovani e non sarà semplice per loro trovare un lavoro: per il fondo inglese le dipendenti sono numeri, non persone che devono pagare un mutuo.

Il fondo inglese ha ridotto i posti vendita de La Perla, causando problemi anche nelle aziende dell’indotto: nei magazzini della logistica giacciono capi invenduti che potrebbero ripianare i debiti dell’azienda. Ma il fondo inglese ha altre idee: l’obiettivo è ridurre al massimo le perdite, massimizzare i rendimenti finanziari. I fondi finanziari non sanno improvvisarsi in imprenditori, la finanza del fondo Tennor sta uccidendo il lavoro.

Così oggi, per le mancate tasse pagate dal fondo inglese, i beni de La Perla sono congelati, bloccandone il rilancio: servirebbe una regolamentazione europea sui fondi finanziari, che dia poteri ai lavoratori per difendersi da questi fondi che si comportano come predatori, distruggendo il lavoro.

Forse non mancano, come dicono i giornali, persone che vogliono lavorare in Italia, fare sacrifici. Mancano imprenditori in Italia, che vogliono mettersi in gioco, partendo dal know di queste lavoratrici che un mestiere lo conoscono bene e che oggi devono lottare senza uno stipendio.

Senza un lavoro con un salario dignitoso, le nostre città diventeranno solo per persone che vivono di rendita – racconta a Iacona la rappresentante sindacale.

Ecco cosa rischiamo in questo paese, non solo il deserto industriale, ma anche il deserto sociale.

Anteprima Presadiretta – autodifesa

Autodifesa significa difendere i propri diritti, quando lo Stato e le istituzioni sembrano essere inefficaci o inerti. Ma autodifesa – il titolo della puntata di stasera ha anche il significa di difesa del settore “auto”: Presadiretta racconterà della battaglia e degli scioperi andati avanti per due mesi da parte dei lavoratori del settore metalmeccanico contro General Motors, Ford e Stellantis: alla fine delle proteste gli operai hanno vinto, ottenendo più soldi in busta paga e stop alla chiusura delle fabbriche. Succede in America, nella terra delle libertà: e in Italia cosa stiamo facendo?

Il 15 settembre 2023 a Detroit, in Michigan, è stato indetto il più grande sciopero che si ricordi nel settore automobilistico: la protesta ha coinvolto circa 50mila lavoratori nel settore automobilistico, ed ha incassato il sostegno del presidente Biden e la sua partecipazione ad un picchetto insieme agli operai. Sei settimane di sciopero hanno tenuto migliaia di operai col fiato sospeso fino al raggiungimento di uno storico accordo che ha garantito importanti aumenti di stipendi ai lavoratori, una vittoria come non se ne erano mai viste prima. Il sindacato ha ottenuto aumenti di salari dal 20 al 25% a seconda delle compagnie automobilistiche, una somma mai vista prima. Presadiretta mostrerà le immagini dei picchetti e racconterà le storie di questi lavoratori: il signor Charles Wade, uno di questi che lavora nella Ford, racconta che, prima dell’accordo, guadagnava circa 30 dollari l’ora, e col nuovo contratto la sua vita è cambiata, coi soldi in più può pagare le bollette, permettersi il cibo di cui ha bisogno, “con questo contratto che dura 4 anni e mezzo, otterrò il 25% di aumenti, e alla fine arriverò a guadagnare 42 dollari l’ora, inoltre abbiamo riottenuto il COLA. Il Cola è l’adeguamento al costo della vita, quando c’è inflazione otteniamo una piccola quantità fissa che potrebbe essere di 0,10 o 0,12 (centesimo di dollaro in più all’ora) che ci permette di mantenere il nostro potere di acquisto.”

E in Italia? Gli anni delle promesse di Marchionne, quei 10 miliardi da investire in Italia sono ormai alle spalle. Nel frattempo la Fiat, diventata FCA, trasferitasi col cervello in America e il portafoglio in Olanda, è passata nelle mani francesi. Il futuro degli stabilimenti italiani è sempre più incerto.

Nello scorso luglio Stellantis ha presentato al Lingotto i due nuovi modelli, la Topolino e la 600 elettrica: peccato che non saranno prodotti in Italia ma in Marocco e Polonia, la verità è che oggi mancano nuovi modelli da produrre negli stabilimenti italiani. Ad oggi gli unici investimenti di Stellantis su Mirafiori sono il Battery Technology Center dove si collaudano le batterie e l’hub per l’economia circolare, per il riciclo dei componenti. Torino non è più la capitale italiana dell’automotive: cosa si produce nell’hub dell’economia circolare inaugurato a fine dicembre del 2023 dove sono stati messi a lavorare 100 operai? Si recuperano pezzi, parti mobili, dei veicoli non marcianti – spiega a Presadiretta Alberto Pittarello operaio Stellantis – poi c’è il ripristino di veicoli marcianti con pochi km a cui viene data una rimessa a posto per essere rimesso in vendita.

Non era proprio la stessa mansione che aveva prima, quando lavorava per Maserati, dove montava le plance.

In questo hub Alberto, che ha 50 anni, è il più giovane: ci sono tutte persone che si apprestano ad arrivare alla pensione “a me piacerebbe girarmi e vedere che c’è un giovane di 26 anni, che subentra, giusto per avere lungimiranza, vuol dire che c’è un progetto ..”
Invece accanto ad Alberto non c’è nessuno.

L’azienda sta incentivando i suoi operai ad andarsene – racconta un altro operaio “l’azienda sta dicendo, noi ti aiutiamo economicamente per uscire .. avessero investito gli stessi soldi che stanno investendo per far andar via le persone probabilmente facevano uno o due modelli nuovi.”

Presadiretta è andata a Grugliasco a quello che, secondo le intenzioni di Marchionne, doveva essere il polo del lusso, con la produzione delle Maserati, su cui si doveva basare la rinascita della Fiat Chrisler a Torino: oggi è tutto abbandonato, oltre le vetrine si intravede una macchina, rimasta là dentro dopo tutti questi anni. Si tratta del primo modello prodotto, con le firme degli operai: qui una volta lavoravano 2500 operai, ma un giorno in Fiat hanno deciso che questo fosse uno stabilimento di troppo, hanno trasferito le poche produzioni rimaste a Mirafiori. “Abbiamo visto chiudere centinaia di imprese” spiega a Presadiretta Edi Lazzi segretario generale della Fiom Cgil di Torino “ne abbiamo quantificato almeno 370 nel solo settore metalmeccanico, persone che hanno perso il posto di lavoro e che ancora oggi stanno facendo la cassa integrazione. E sembra che questo film dell’orrore non si fermi..”
Lo stabilimento della Maserati è stato messo in vendita da Stellantis sul sito di immobiliare.it, come fosse un edificio qualsiasi e non uno degli insediamenti industriali tra i più importanti dell’automotive italiana

La situazione è ben diversa in Serbia: Presadiretta è andata a Kragujevac, città a circa 140 km da Belgrado dove ha incontrato Branko Vuckovic, giornalista locale, esperto di industria e automotive, che ha mostrato gli storici stabilimenti Zastava Fiat, oggi di proprietà di Stellantis. Ai tempi della Fiat nel parcheggio aziendale potevano stare solo le auto della Fiat e della Zastava, le auto di altri marchi dovevano sostare lontano e gli operai venire a piedi. Poi i capannoni costruiti per la Fiat 500, negli ultimi due anni la fabbrica è stata chiusa e hanno impiegato questo tempo per installare altre linee di produzione nello stabilimento. I lavori sono quasi pronti – racconta il giornalista serbo – e la produzione della nuova auto Fiat dovrebbe iniziare nel terzo trimestre di quest’anno. Al momento nella fabbrica ci sono 500 operai circa: solo loro che produrranno, secondo i piani di Stellantis, l’auto per tutte le tasche, la nuova Panda elettrica: “io parlo con la gente, sono sempre per strada, posso dirti che qui sono tutti molto felici che Stellantis abbia scelto Kragujevac per produrre il nuovo modello, perché l’auto elettrica rappresenta il futuro e questo porterà tanto lavoro per la città e per tutta la Serbia”.

Forse anche in Italia servirebbe una seria presa di coscienza di come stanno le cose nel settore automobilistico per una autodifesa dei posti di lavoro.

Come han fatto alla GKN, a Firenze.

Come quella che stanno cercando di portare avanti le operaie del marchio La Perla che, da mesi nell’ora di pausa, manifestano per strada per sensibilizzare le persone alla loro situazione: “il rumore che facciamo è per far suonare i clacson per farci sentire, per farci notare .. noi stiamo rischiando il licenziamento e addirittura si parlava anche di portare La Perla in un altro posto” racconta Lorena Linari a Presadiretta “ma non si sa dove, quindi non è giusto..”.
Da settembre 2023, ogni giorno, all’ora di pranzo le lavoratrici de La Perla di Bologna organizzano un picchetto di protesta, con cartelli dove è scritto “non siamo dei numeri”. La Perla è una delle più importanti e antiche aziende nel settore della lingerie e dei costumi da bagno di lusso: “il morale è a pezzi” prosegue Lorena “non si può pensare di venire a lavorare senza retribuzione”. Tutto comincia dal marzo del 2023, perché da quando il fondo inglese Tennor che nel 2018 aveva comprato La Perla, c’è stato un tracollo della produzione e del fatturato, quindi La Perla, dopo 70 anni di storia, rischia la chiusura e le operaie sono senza stipendio.

La scheda del servizio:

Il viaggio di PresaDiretta inizia da Detroit, dove l'industria dell'automobile è il fulcro dell'economia. Il 15 settembre del 2023 è stato indetto un importante sciopero del settore, la protesta ha coinvolto circa 50mila lavoratori di Ford, General Motors e Stellantis, le cosiddette big three. Sei settimane di sciopero ma alla fine si è arrivati ad un accordo per l'aumento degli stipendi dei lavoratori. Una vera e propria autodifesa, come quella che stanno tentando gli operai di Mirafiori o della Lear dove il calo di produzione rischia di mandare a casa molti lavoratori. A Torino, in quella che un tempo era la capitale dell'auto, si assiste al braccio di ferro tra governo e Stellantis, l'unico grande produttore di automobili rimasto in Italia. 
Il governo accusa il gruppo di produrre più in Francia che nel nostro Paese e Stellantis per restare sul territorio chiede investimenti pubblici nelle infrastrutture, incentivi all'acquisto di auto elettriche e forti sconti sul costo dell'energia, ma soprattutto minaccia tagli e chiusure. "Senza sussidi all'elettrico, Mirafiori e Pomigliano sono le fabbriche italiane i cui posti di lavoro sono più a rischio", ha dichiarato l'amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares. 
Autodifesa non solo nel mondo dell'industria automobilistica, ma anche nel settore della lingerie di lusso. Le lavoratrici de La Perla di Bologna, una delle più importanti aziende del settore, da quando nel 2018 è stata comprata dal fondo finanziario Tennor stanno assistendo ad un tracollo della produzione, e ora l'azienda rischia la chiusura. La soluzione alla crisi dell'industria potrebbe arrivare da modelli come la "settimana corta", ovvero quattro giorni lavorativi anziché cinque a parità di stipendio. Da Luxottica a Lamborghini, ma anche in Portogallo, dove quarantuno aziende stanno valutando se lavorare meno con lo stesso salario sia la strada giusta per produrre meglio e di più.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

19 marzo 2024

Le regole degli infami, di Fulvio Luna Romero


 

Prologo
Tre anni prima

La cravatta piegata con cura. La giacca in panno, i pantaloni con la banda rossa. Tutto nell’armadio con le bustine per tenere lontano le tarme. Guarda il cappello, la fiamma argentea per cui ogni mattina si alza e fa quello che deve fare. Usi obbedir tacendo, e tacendo morir.

Chi è l’ufficiale dei carabinieri che nel prologo si “spoglia” del suo essere uomo dello stato e si appresta a compiere il proprio dovere senza porsi troppe domande su quello che gli verrà chiesto di fare? È uno dei misteri che si svelerà, alla fine, in questo noir dal sapore incredibile, che parte quasi in sordina, per poi accelerare in un intreccio di colpi di scena, di morti e di tradimenti.

Siamo in Veneto, lungo la penisola di Jesolo, terra di turismo, di mare e di vacanze.. ma qui si racconta di un altro nordest, come non l’avete mai visto se non nei romanzi di Massimo Carlotto a cui più volte è andato il mio pensiero mentre leggevo le pagine di questo romanzo. Un’immagine che va oltre il benessere, i soldi, la facciata perbene.

C’è anche un lato oscuro, come impariamo sin dalle prime pagine quando incontriamo due protagonisti, il Negro e Africa.

La rete del campeggio abbandonato, coperta di ruggine, è nascosta dalle sterpaglie. Tra gli alberi rinsecchiti, miracolosamente sopravvissuti alle violente trombe d’aria degli ultimi anni, la natura si è ripresa quegli spazi catturando la poca luce del primo pomeriggio. Il Negro, Africa e Simone camminano in fila indiana.

Sono due guardaspalle di Andrea Salvi, il proprietario di un’azienda che si occupa di ristorazione e che rifornisce una buona parte dei locali e dei ristoranti del litorale. Almeno questa è la facciata pulita: nonostante quella faccia da brava persona, quei modi quasi educati, la sua azienda si occupa di spaccio di droga, di prostituzione, del business delle videolottery, di riciclaggio di denaro sporco tramite il settore delle costruzioni.

Il suo nome è Andrea Salvi. Vuole essere chiamato Andrea. Punto. La seconda è uno dei pilastri su cui si basa tutta la sua organizzazione o, per dirla come farebbe lui, la sua azienda: volare basso.

Vola basso Andrea Salvi, ma sa picchiare duro, attraverso i suoi guardaspalle, il Negro, Africa e il Bomber. Il primo aveva iniziato come trasportatore e ha “fatto carriera” per il suo modo spiccio di riscuotere i crediti. Non si sa nulla del suo passato.

Africa si chiama così perché viene dal sud (e tutto ciò che è a sud è “Africa”), lavorava per i clan della Camorra ma ad un certo punto ha dovuto cambiare vita, andando su al nord a fare le stesse cose. Infine Bomber, ex promessa del calcio che si è bruciato la carriera per la coca e altre cose poco legate allo spor.

Tutti e tre gestiscono i lavori sporchi per l’azienda, quando bisogna minacciare, picchiare o perfino sparare. Come si fa volare basso quando devasti il territorio col cemento, mandi in giro la droga, intimidisci la concorrenza?

Sempre nella galassia di attività governate dalla scrivania della Adria Drink ci sono due cooperative che si occupano di accogliere e gestire i rifugiati. Questi sono fondamentali per l’azienda. Manodopera criminale a bassissimo costo, ricchi contributi statali.

Non è vero che quando vediamo una persona di colore per strada, in piazza, pensiamo subito questo che sia uno spacciatore arrivato qui coi barconi a delinquere e ad essere mantenuto coi nostri soldi? Mica pensiamo a quelli che stanno sopra di lui, magari imprenditori dalla faccia pulita come Andrea Salvi oppure, sopra ancora, al boss della locale della ndrangheta che si è ben installata in questa ricca regione, stringendo accordi con la criminalità locale.

Con gente come Salvi appunto che è stato bravo, anni prima, ad inserirsi nel vuoto che si era creato dopo la cattura dei capi della mala del Brenta, un vuoto che la criminalità straniera voleva riempire. È stato anche bravo a seguire delle regole ben precise, per volare basso e per evitare di finire nel radar di qualche magistrato o poliziotto.

Nessuna ostentazione del lusso, nessuna chiacchierata pericolosa al cellulare, se si deve parlare di qualche operazione sporca si prende la barca e si discute in alto mare.

Come quando si deve preparare l’azienda all’arrivo di un grosso carico di droga: droga ha fatto più delle politiche per l’integrazione perché a bucarsi, a farsi la dose, ci sono sia i ricchi che i poveri, sia i bianchi sia le persone da tutto il mondo, bianchi, neri, balcanici e sudamericani.
Eccolo, il business dei rifugiati, creato dalla politica che fa propaganda sulla loro pelle e che arricchisce anche la criminalità:

Negli ultimi anni, infine, c’era stato l’affare dei rifugiati: era stato sufficiente creare delle cooperative e mettere a disposizione degli immobili. Lo stato pagava, e lui poteva contare su un sacco di spacciatori a basso costo.

Bisogna volare basso ma ogni tanto va lanciato un segnale: per esempio quando c’è da sbrigare un problema con un albanese che si sta facendo un po’ troppo gli affari che avrebbe dovuto lasciar perdere: tanto, la brava gente quando leggerà sui giornali dell’omicidio penserà che si tratta di bande criminali di stranieri che si stanno ammazzando tra di loro.

Cosa c’è di meglio che dire: «Si tratta di stranieri che si ammazzano», piuttosto che focalizzare l’attenzione sul fatto che il litorale è in mano a un gruppo locale potente e organizzato?

L’importante è non svegliare l’attenzione dei bravi cittadini con reati che possano suscitare qualche reazione di pancia: agli italiani non toccategli le case, le macchine, i loro beni, il crimine non deve essere percepito.

È un gioco vecchio, una delle regole più salde di Salvi: ricicla, corrompi, traffica, edifica, e nessuno dirà nulla. Fai entrare i ladri in un paio di case, spacca due macchine, e la gente si scatenerà.

Tanto lo sanno tutti chi è e cosa fa questa azienda, come ha fatto fuori i concorrenti, come si è espansa in tanti settori. Ma per un pizzico di omertà, paura e anche convenienza, tutti sanno e nessuno parla.

È andata sempre bene ad Andrea e ai suoi uomini, fino a quell’ultimo carico, arrivato sul litorale per tramite del boss Di Paola e che verrà consegnata all’azienda per tramite degli albanesi.

In quello scambio, in mezzo alla laguna, irrompono i carabinieri, scoppia una sparatoria dove ci scappa un morto. E allora tutto inizia a crollare, perché bisogno violare quelle regole che si era dato.

Ma tra gli uomini di Salvi c’è n’è uno che ha una doppia faccia. È un carabiniere che è stato infiltrato dentro l’azienda per cercare le prove per portarli tutti in carcere.

Dopo anni vissuti da “undercover”, sul filo del rasoio, dove ad ogni passo devi guardarti le spalle, non è facile ricordarsi chi sei veramente, che lavori per lo Stato e non per la criminalità. Ti si spalanca davanti un abisso, che rischia di inghiottire tutta la tua vita.

E non solo la tua.

«Mi hai presa per il culo. Tutto questo tempo… Non vali niente!»

«In un mondo di bugiardi e tradimenti ho solo dovuto imparare a recitare meglio degli altri.»

Adrenalinico, specie nella seconda parte dove tutto sembra esplodere e si perdono tutti i punti di riferimento: dentro questo noir non troverete buoni contro cattivi e nemmeno un finale edificante, quelli dove alla fine il bene prevale sul male e i cattivi sono assicurati alla giustizia.
Viene da chiedersi quanto la realtà sia distante dal romanzo, quanto marcio sia un certo tessuto sociale, imprenditoriale. E quanto sia labile il confine tra chi combatte il male e il male.

La scheda del libro sul sito di Marsilio

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

18 marzo 2024

Presadiretta –Stop ai veleni

È il più grave caso di inquinamento di una falda idrica in Europa, che coinvolge 350mila persone nel Veneto. Si tratta dell’inquinamento per PFAS da parte di dell’azienda Mitemi: ma oggi altre regioni, altri corsi d’acqua sono inquinati da PFAS, la cui bonifica ci costerà cara, non solo in termini economici.

Ma ci sono alternative ai PFAS nell’industria?

L’inquinamento da PFAS in Veneto

Il legame tra l’atomo di Carbonio e quello di Fluoro, alla base dei PFAS, è indissolubile, furono inventati ai tempi del progetto Manhattan e oggi sono usati ovunque, dalle padelle antiaderenti ai tessuti.

In Veneto la Mitemi è oggi a processo per l’inquinamento di una falda, per le mancate bonifiche: il più grande processo per reati ambientali ma, come racconta Philippe Grandjean (chiamato a testimoniare al processo), i PFAS stanno già creando danni mortali nella popolazione.

I PFAS passano dalla mamma al feto, che viene intossicato già nel grembo: le mamme nel Veneto si sono così associate per poter avere acqua pulita, sono le mamme no-pfas, che Presadiretta aveva incontrato sin dal 2016.

Chiedono alla regione la bonifica di questa zona, perché questa azienda ha avuto grandi profitti e le bonifiche sono ancora a carico del pubblico. Non solo, la fabbrica continua a sversare inquinanti nella falda.

I bambini nati qui hanno valori di colesterolo alto, problemi di diabete, problemi alla tiroide: “sappiamo di avere una bomba ad orologeria dentro”, dice a Presadiretta una mamma.

Il professor Grandjean spiega meglio i rischi dei PFAS: “queste molecole [del PFAS] non si rompono perché servono temperature di almeno mille gradi per distruggerle.. questi inquinamenti possono aumentare il colesterolo, contribuire al diabete e all’obesità, influenzano la funzione della tiroide, la fertilità, forse anche il sistema nervoso centrale. In una gravidanza possono causare aborti spontanei o un basso peso del bambino e certamente i PFAS aumentano il rischio di cancro ai reni, probabilmente anche al seno e ai testicoli e alla vescica. Perché agiscono sul sistema immunitario che ha l’importantissima funzione di eliminare le cellule disfunzionali, quindi il nostro corpo non si può difendere dal cancro.”

L’agenzia internazionale del cancro ha confermato le parole di Grandjean: una pessima notizia per le persone che queste sostanze, i PFAS, le hanno già nel sangue. E i bambini, ancora nella placenta, hanno dosi ancora più massicce.

I ragazzi dentro la zona rossa in Veneto devono sottoporsi a degli screening, in particolare per capire l’impatto sulla loro fertilità: i PFAS non solo uccidono, ma tolgono anche il futuro a questo territorio.


Servirebbe un rapporto epidemiologico completo per stabilire la correlazione tra PFAS e malattie: ancora non c’è, nonostante regione e ministero avessero lavorato assieme nel 2018, ma poi tutto il lavoro fu fermato. LA regione – racconta il dottor Crisanti – ha scelto di non vedere, per non dover prendere delle decisioni.

Ma questo disastro era evitabili? I primi studi sul PFAS erano noti dagli anni 70: gli effetti avversi erano noti, purtroppo, in base a studi sugli animali e sugli uomini. Sono studi fatti dalla 3m e dalla Dupont, condivisi alla Mitemi: la Dupont iniziò ad acquistarlo dalla 3m, ha incrementato la produzione

Ma l’inquinamento da PFAS non è limitato alla sola regione Veneto, dove i pFAS continuano a distruggere l’ambiente.

Francesco Bertola è il presidente dell’ISDE in Veneto: a Presadiretta racconta di come l’inquinamento continua ad andare avanti anche solo perché l’acqua del rubinetto viene usata per innaffiare l’orto. Ad essere inquinata non è solo l’acqua, il terreno, nel cibo.

A Monza, all’istituto del CNR che analizza le acque inquinate, hanno analizzato le acque di un pozzo di una abitazione nella zona rossa: l’acqua inquinata contamina i cibi se usata per la cottura, se usata per pulire gli ortaggi. Non c’è scampo al PFAS, anche se si abita lontano dai luoghi inquinati, perché sono tanti i prodotti realizzati con i PFAS.

Mobili trattati con PFAS, il cartone della pizza, le padelle, la tappezzeria (perché non assorbe l’acqua), nei vestiti, nelle carte da forno, la carta igienica.

Il forever pollution project, uno studio promosso da Le Monde ha rivelato che il PFAS è diffuso in tutta Europa: la mappa dello studio copre tutto il continente, la sua rimozione richiederebbe cifre enormi, sarà la bancarotta della società moderna, anche gli stati ricchi andrebbero in default.

In Italia ci sono gli inquinamenti nelle zone dove erano presenti industrie chimiche, ma ci sono tracce di inquinamento anche in Toscana.

A Pistoia nel distretto dei vivai, a Prato nel distretto tessile, a Pisa dove si lavora il cuoio a San Miniato, il distretto conciario in zona Santa Croce sull’Arno e infine il distretto cartaio a Pisa.

In tutte queste zone, in tutti i campioni sono state trovate tracce di PFAS, dove gli impianti di depurazione sono inefficaci nel filtrare queste molecole.

Giuseppe Ungherese di Greenpeace racconta del far west normativo in Italia, non esistono dei vincoli per legge per i PFAS, perché la politica ha sempre sottovalutato questo problema.

Ma anche in Europa non si sta bene: servirebbe una legge europea per vietare il PFAS in toto, ma le aziende stanno facendo pressioni per bloccare questa legge. L’Italia non sta facendo pressioni per fare questa legge, nonostante proprio nel nostro paese sia avvenuto il grave caso di avvelenamento in Veneto.

Ma l’industria continua a lavorare coi PFAS: in Piemonte la Solvay è al centro del caso di Montecastello, ad Alessandria.

Qui l’ARPA ha trovato PFAS nei pozzi della zona e nell’acquedotto: sono i fluoruri di nuova generazione prodotti dalla Solvay stessa, l’azienda sostiene che sono meno dannosi.

Il comune aveva speso 400mila euro per costruire questo pozzo che ora non può essere usato, ma l’azienda non si ritiene responsabile (spiegando di essere troppo distante dal pozzo), aggiungendo di ritenere sicuro il limite di 7 microgrammi/litro. Ma Solvay non può sostituirsi ad Arpa o ai medici: i ricercatori del CNR stanno lavorando sul caso di Montecastello non credono all’azienda e ora hanno deciso di monitorare l’acqua dei fiumi, le uova dei pesci e in generale degli animali che si muovono attorno a questa zona.

La contaminazione da PFAS è confermata anche da ARPA Alessandria: sono presenti nell’aria, nell’acqua e nei terreni anche lontani dal polo industriale. In assenza di valori limite di riferimento non c’è modo di stabilire quanto ampia sia l’area inquinata.

Questo inquinamento dell’aria e dell’acqua porta patologie al fegato, tumori renali, problemi a carico dei bambini: lo racconta a Presadiretta l’epidemiologa Cristiana Ivaldi dell’Arpa Piemonte – “mi dispiace quando si sente parlare dell’Ilva e si dice, ma come si è arrivato a questo? Si è arrivati per inerzie di anni di chi doveva controllare e non l’ha fatto, chi doveva intervenire e non l’ha fatto . A noi interessa tutelare la salute delle persone e quindi se qualcuno dice che non c’è niente, approfondiamo, se non troviamo niente non c’è problema. Io se mi fermano ad un posto di polizia e ho la coscienza pulita, non ho paura a fermarmi per farmi controllare”.

Cristiana Ivaldi aspetta il mandato della regione per proseguire l’indagine epidemiologica: ma in Piemonte come nel Veneto questa indagine manca, così le analisi sulla salute degli abitanti di Spinetta, a ridosso dello stabilimento della Solvay, arrivano da un team giornalistico belga.

Oggi contro questo inquinamento si stanno mobilitando i comitati dei cittadini, come quelli di Spinetta: sono persone arrabbiate contro le istituzioni, ma anche preoccupate perché questo inquinante c’è ma non si vede.

Chiedono lo stop dell’azienda Solvay, una legge nazionale sullo sversamento di inquinanti nelle acque dei fiumi e nell’aria.

Di fronte a certe malattie non si può far finta di niente – racconta una ragazza di Spinetta i cui genitori sono morti per tumore – come faccio a fare un figlio qui?

L’indagine epidemiologica al momento non è stata fatta – racconta il sindaco di Alessandria – perché mancano i soldi e perché non avrebbero gli strumenti.

Nel frattempo la regione sta facendo un’analisi muovendosi a cerchi concentrici, partendo dagli abitanti a ridosso dello stabilimento: come mai si sono aspettati cinque anni, però?

L’assessore all’ambiente in Piemonte spiega che già a marzo dovrebbero arrivare i primi dati, ma il tempo passa e gli inquinanti restano.

Già nel lontano 2007 uno studio europeo sospettava che la multinazionale Solvay contaminasse le acque del Po col il PFOA, il composto ora vietato in quanto ritenuto cancerogeno. Presadiretta ha rintracciato l’autore dello studio Michael Mc Lachlan: “abbiamo prelevato campioni dai principali fiumi europei e abbiamo calcolato il contributo totale di tutti questi fiumi, la quantità totale di PFOA che entrava negli oceani e abbiamo scoperto che il fiume Po contribuiva per i due terzi al totale di tutta l’Europa o, in altre parole, che c’era il doppio di PFOA che scorreva nel fiume Po rispetto a tutti gli altri fiumi che avevamo studiato tutti insieme”.
Perché il PFOA era nel fiume Po?
“Eravamo sicuri che ci fosse una fonte industriale perché i livelli erano così alti e poi abbiamo identificato Solvay come probabile fonte di queste sostanze chimiche, perché sapevamo che produceva sostanze chimiche perfluorurate per quel bacino idrografico. Solvay era un partner del progetto in cui eravamo coinvolti, così gli abbiamo scritto informandola dei nostri risultati e chiedendole di indagare. Ci hanno risposto con una lettera in cui spiegavano che la loro azienda non poteva essere la fonte della contaminazione ”

Secondo l’azienda le fonti di inquinamento erano plurime, negando le loro responsabilità: dopo quella lettera, però, Solvay non mandò altre comunicazioni a Mc Lachlan. Solvay sapeva, dunque, era già stata avvisata dei rischi nel 2007.

Nella lettera a Presadiretta Solvay scrive di voler dismettere l’uso dei PFAS. Ma la battaglia per distruggere i PFAS è lunga e costosa

Presadiretta ha visitato la centrale idrica Acque Veronesi, di Madonna di Lonigo a Vicenza, nell’epicentro dell’inquinamento per PFAS. Fornisce acqua potabile ad un bacino di 50mila persone, sono stati i primi a pulire l’acqua da PFAS installando dei filtri a carbone attivo, ricavati dalle noci di cocco. Nella centrale ci sono 20 filtri, enormi, ciascuno contiene 13mila kg di carbone attivo, che continuano a depurare le acque che continuano ad essere ancora inquinate.

Ma i filtri costano, circa 1,5 ml di euro l’anno, perché i carboni attivi devono essere cambiati spesso (una volta al mese): tutto questo è a carico dei contribuenti in bolletta. C’è poi il tema della rigenerazione dei filtri, per distruggere le molecole sul carbone (con processi che richiedono temperature molto elevate) e poterli riusare e anche questo ha un costo.

Al Politecnico di Milano la dottoressa Silvia Franz sta studiando processi alternativi per distruggere il PFAS: si studia il biossido di Titanio, per degradare i PFAS, arrivando a del materiale di scarto su cui si stanno facendo analisi per capire quanto siano ancora inquinanti.

Il tema delle bonifiche è sentito anche in Danimarca, dove Presadiretta ha visitato il più grande centro di studi sul PFAS (PFAS test center): il centro sorge accanto ad un centro di addestramento per vigili, che scaricava nel fiume le schiume dove era presente questo inquinante.
Si studia la cattura di PFAS tramite bolle d’aria presenti nell’acqua: qui lavora il professor Dondero, che sta lavorando sui PFAS a catena corta, composti più difficili da rilevare e su cui si conosce poco dei danni che possono provocare.

A Presadiretta il professor Dondero spiega che va regolato sia l’uso a breve termine, che gli impatti nel lungo termine, cosa succede nei terreni se rimane questo inquinante per anni.

Va limitato l’uso del PFAS, adesso, anche in luoghi un tempo incontaminati, come l’Artico, dove ad essere contaminati sono le persone e anche gli animali. Tutta la catena alimentare ha al suo interno i PFAS: perché le persone devono pagare questo prezzo, noi non abbiamo inquinato questi territori – racconta il dottor Grandjean a Presadiretta – ritrovato nelle isole Far Oer.

Un mondo senza PFAS è possibile: si possono fare pentole antiaderenti, giacconi repellenti all’acqua senza PFAS. Lo ha raccontato l’ultima parte del servizio: produrre senza PFAS si può, ma conviene anche.

La Pure Print produce contenitori per prodotti alimentari senza PFAS in Danimarca (che è PFAS free dal 2020): usano prodotti compostabili, come carta o cartone. Hanno cambiato produzione sin dal 2007, per rimanere sul mercato, per realizzare un prodotto sostenibile: il prodotto ha costi maggiori, ma i loro prodotti hanno una resa molto promettente.

La Coop danese, la catena di supermercati, ha fatto sparire i prodotti coi PFAS dai loro scaffali, senza aspettare che si muovesse la politica.

In Italia si stanno sperimentando pompe di calore e impianti di refrigerazione senza PFAS: i gas refrigeranti non sono pensati per essere emessi nell’atmosfera – racconta il professor Del Colle che nei suoi esperimenti sta usando gas naturali.

È quello che sta facendo la Epta Group, una azienda che si occupa di macchine per refrigerazione: anche loro non hanno aspettato la politica ma si sono mossi prima per un principio di precauzione.

Alla Daykem a Prato si stanno sperimentando tessuti impermeabili senza PFAS: le performance che stanno ottenendo sono anche superiori. Il responsabile dell’azienda è fiducioso, tra qualche anno potremmo arrivare ad un mercato PFAS free.

In Germania c’è l’azienda Vaude, specializzata nel vestiario per gli sport di montagna: i loro prodotti devono essere impermeabili.

Presadiretta ha intervistato Bettina Roth, responsabile del settore qualità di Vaude: usavano per i loro tessuti i PFAS per renderli impermeabili all’acqua che rimane in superficie e scivola via. Ora, dopo anni di ricerca, i tessuti di nuova generazione hanno la stessa idrorepellenza, ma non contengono i PFAS, ma usano una tecnologia in poliuretano: “non è vero che nel tessile ai PFAS non c’è alternativa, al giorno d’oggi non c’è motivo per continuare ad usarli, tante aziende li usano ancora perché è economico ed è più semplice”.

E i prodotti realizzati con questi tessuti funzionano in caso di pioggia, come ha testato direttamente il giornalista di Presadiretta.

Cosa aspetta l'Italia a seguire l'esempio di Danimarca e Germania, nel limitare l'uso di questi inquinanti, specie ora dove sappiamo tutti quanto è grande l'impatto sull'ambiente e sulla nostra salute?

Anteprima Presadiretta –Stop ai veleni

La puntata di stasera sarà dedicata ai PFAS, pericolosi inquinanti usati dall’industria in molti settori, dai vestiti alle padelle. Si è scoperto ora che sono arrivati nel nostro sangue: quali sono le conseguenze per il nostro organismo e come possiamo liberarcene?

Presadiretta aveva racconta della contaminazione del PFAS già nel passato: la sostanza usata ancora dalle industria (per esempio per le pentole antiaderenti ma anche l’industria conciaria) che aveva inquinato le false in Veneto nel silenzio delle amministrazioni, suscitando uno scandalo da parte delle associazioni ambientaliste (le mamme no pfas) e poi l’inchiesta della procura di Vicenza, culminata col maxi processo sul caso Miteni.

Durante il processo tenuto a Vicenza per l’inquinamento da PFAS, è intervenuto anche Philippe Grandjean massimo esperto degli effetti che questo inquinante ha sulla nostra salute.

Al processo contro la Miteni, l’azienda ritenuta responsabile dell’inquinamento e imputata per disastro ambientale e inquinamento delle acque, erano presenti molti rappresentanti delle parti civili, interessate a sentire la sua deposizione.

Ai giudici ha riportato il suo giudizio: “la mia posizione è chiara, l’inquinamento ha già avuto rispercussioni sulla salute pubblica come sappiamo dalla mortalità. L’esposizione ai PFAS su scala internazionale è eccezionale, direi addirittura scandalosa.. ”
Di fronte a Presadiretta ha spiegato meglio: “queste molecole [del PFAS] non si rompono perché servono temperature di almeno mille gradi per distruggerle.. questi inquinamenti possono aumentare il colesterolo, contribuire al diabete e all’obesità, influenzano la funzione della tiroide, la fertilità, forse anche il sistema nervoso centrale. In una gravidanza possono causare aborti spontanei o un basso peso del bambino e certamente i PFAS aumentano il rischio di cancro ai reni, probabilmente anche al seno e ai testicoli e alla vescica. Perché agiscono sul sistema immunitario che ha l’importantissima funzione di eliminare le cellule disfunzionali, quindi il nostro corpo non si può difendere dal cancro.”

La regione Veneto, il ministero dell’Ambiente e della Salute sapeva di questo inquinamento sin dal 2013: è quanto emerge dallo stesso processo dalle dichiarazioni degli esperti del CNR hanno condotto degli studi sui bacini fluviali conclusosi nel febbraio 2013 che abbracciano circa 30 comuni tra Padova e Vicenza:

«Ho iniziato a studiare i Pfas - ha detto rispondendo alle domande degli avvocati dei responsabili civili Cammarata e Scuoto, e di quelli di parte civile Ceruti e Tonnellotto - tra il 2007 ed il 2008 in seguito alla notizia di uno studio europeo del 2006. Ci sono voluti circa un paio d’anni per partire con il nostro progetto, ovverosia nel 2011. Nel Vicentino per i prelievi ci siamo fatti accompagnare da Arpav. Ma è stata nella seconda fase, quella conclusasi a febbraio 2013, che è venuta alla luce la maxi contaminazione da Pfas nelle acque superficiali coinvolgendo una trentina di comuni racchiusi tra i territori di Vicenza, Padova e Verona. Abbiamo individuato “Miteni” come principale fonte di pressione. Abbiamo indagato, per verificare eventuali altre sorgenti, anche il distretto conciario di Arzignano, ma le concentrazioni trovate sono state molto basse. Così pure per il distretto del tessile nella valle dell’Agno».

In precedenza è stato sentito il direttore tecnico di Arpav, Paolo Rocca, che ha più volte sottolineato di «non aver avuto un ruolo operativo» e, in riferimento agli anni passati, ha spesso eluso le domande degli avvocati della difesa.

Ma non c’è solo il Veneto col caso Miteni: anche in Piemonte, a Spinetta Marengo accanto allo stabilimento della Solvey, è avvenuto un inquinamento importante – lo racconta a Presadiretta l’epidemiologa Cristiana Ivaldi dell’Arpa Piemonte – “mi dispiace quando si sente parlare dell’Ilva e si dice, ma come si è arrivato a questo? Si è arrivati per inerzie di anni di chi doveva controllare e non l’ha fatto, chi doveva intervenire e non l’ha fatto . A noi interessa tutelare la salute delle persone e quindi se qualcuno dice che non c’è niente, approfondiamo, se non troviamo niente non c’è problema. Io se mi fermano ad un posto di polizia e ho la coscienza pulita, non ho paura a fermarmi per farmi controllare”.

Alcune anticipazioni del servizio sono già uscite sui quotidiani locali, dove la notizia dell’inquinamento e degli impatti sulla nostra salute sono più sentiti: dal sito Alessandria Today:

LA BATTAGLIA DI MARENGO

Alla fine di marzo dovremmo avere già i primi risultati del primo campione di persone che si sono sottoposte al prelievo”.

Ce lo dice Antonino Sottile, direttore della Sanità piemontese, nell’ambito dell’inchiesta di Presa Diretta dedicata all’inquinamento da PFAS nella provincia di Alessandria. La Regione ha appena cominciato il biomonitoraggio su un campione di abitanti delle zone limitrofe al polo chimico della Solvay. Il campione identificato dalla Regione Piemonte è per ora limitato ma, a quanto sostiene Sottile, potrebbe allargarsi per comprendere tutti gli abitanti e determinare il nesso di causalità tra malattie e inquinanti.

È proprio quello che manca per fare chiarezza sugli aumenti di malattie, ricoveri e mortalità nella popolazione di Spinetta Marengo. Nel nostro racconto parleremo della battaglia che stanno facendo i comitati della zona per completare lo studio epidemiologico pubblicato nel 2019, che doveva avere una fase conclusiva che il Comune di Alessandria, come afferma il sindaco Giorgio Abonante “non è minimamente in grado di finanziare da solo perché ha un costo molto alto”.
Nel racconto PresaDiretta ha acceso le telecamere anche su Montecastello, dove il sindaco Gianluca Penna “è stato costretto a chiudere un pozzo costato 400.000 euro, per la presenza nell’acqua del C6O4, PFAS di nuova generazione prodotto esclusivamente da Solvay“. I ricercatori dell’IRSA-CNR Stefano Polesello e Sara Valsecchi racconteranno quanto è difficile per la ricerca rincorrere le aziende sulle nuove molecole brevettate, che restano in produzione per anni e, quando si riesce a dimostrare la loro tossicità, come dice Polesello “è ormai troppo tardi” per fermare i danni della contaminazione su territorio e abitanti.

Dopo Veneto e Piemonte con l’inquinamento dei poli chimici di Mitemi e Solvay, Presadiretta racconterà dell’inquinamento da PFAS in Toscana: a Pistoia nel distretto dei vivai, a Prato nel distretto tessile, a Pisa dove si lavora il cuoio a San Miniato, il distretto conciario in zona Santa Croce sull’Arno e infine il distretto cartaio a Pisa.

Per sanare le acque nelle falde ci vorranno almeno 500 anni, sempre che si smettesse sin da ora di inquinarle: un tempo lunghissimo che dovrebbe far riflettere sulla pericolosità nell’uso dei PFAS da parte dell’industria.
In Veneto la regione ha dichiarato che, dopo aver interpellato l’Istituto Superiore della Sanità
è stata avviata la definizione degli aspetti utili all’avvio dello studio”, ovvero il rapporto epidemiologico che permetterebbe di stabilire chi ha inquinato e quando, rapporto che è atteso da troppi anni.
Le bonifiche hanno dei costi enormi, come anche i filtri per le acque inquinate: Presadiretta visiterà la centrale idrica
Acque Veronesi, di Madonna di Lonigo a Vicenza, nell’epicentro dell’inquinamento per PFAS. Fornisce acqua potabile ad un bacino di 50mila persone, sono stati i primi a pulire l’acqua da PFAS installando dei filtri a carbone attivo, ricavati dalle noci di cocco. Nella centrale ci sono 20 filtri, enormi, ciascuno contiene 13mila kg di carbone attivo, che continuano a depurare le acque che continuano ad essere ancora inquinate.

Il problema è che il tempo passa e gli inquinanti restano, già nel lontano 2007 uno studio europeo sospettava che la multinazionale Solvay contaminasse le acque del Po col il PFOA, il composto ora vietato in quanto ritenuto cancerogeno. Presadiretta ha rintracciato l’autore dello studio Michael Mc Lachlan: “abbiamo prelevato campioni dai principali fiumi europei e abbiamo calcolato il contributo totale di tutti questi fiumi, la quantità totale di PFOA che entrava negli oceani e abbiamo scoperto che il fiume Po contribuiva per i due terzi al totale di tutta l’Europa o, in altre parole, che c’era il doppio di PFOA che scorreva nel fiume Po rispetto a tutti gli altri fiumi che avevamo studiato tutti insieme”.
Perché il PFOA era nel fiume Po?
“Eravamo sicuri che ci fosse una fonte industriale perché i livelli erano così alti e poi abbiamo identificato Solvay come probabile fonte di queste sostanze chimiche, perché sapevamo che produceva sostanze chimiche perfluorurate per quel bacino idrografico. Solvay era un partner del progetto in cui eravamo coinvolti, così gli abbiamo scritto informandola dei nostri risultati e chiedendole di indagare. Ci hanno risposto con una lettera in cui spiegavano che la loro azienda non poteva essere la fonte della contaminazione ”

Ci sono alternative all’uso del PFAS nell’industria? Presadiretta ha intervistato Bettina Roth, responsabile del settore qualità di Vaude: usavano per i loro tessuti i PFAS per renderli impermeabili all’acqua che rimane in superficie e scivola via. Ora, dopo anni di ricerca, i tessuti di nuova generazione hanno la stessa idrorepellenza, ma non contengono i PFAS, ma usano una tecnologia in poliuretano: “non è vero che nel tessile ai PFAS non c’è alternativa, al giorno d’oggi non c’è motivo per continuare ad usarli, tante aziende li usano ancora perché è economico ed è più semplice”.

E i prodotti realizzati con questi tessuti funzionano in caso di pioggia, come ha testato direttamente il giornalista di Presadiretta.

A Prato il giornalista di Presadiretta Antonio Laganà racconterà una seconda esperienza positiva, quella dell’azienda chimica Daykem che nelle sue lavorazioni non fa uso dei PFAS.

La scheda del servizio:

Si possono trovare in uno smalto, negli imballaggi da fast food, persino nelle lenti a contatto: si chiamano Pfas, sostanze per-e poli fluoroalchiliche e sono stati definiti “inquinanti eterni” perché si trovano nell’acqua, nei cibi, addirittura si trasmettono di madre in figlio e per distruggerli è necessaria una temperatura di almeno 1000 gradi. “Presadiretta”, il programma di Riccardo Iacona in onda lunedì 18 marzo alle 21.20 su Rai 3, racconta questo nemico invisibile attraverso un viaggio nelle zone più contaminate in Italia e nel resto di Europa. Si parte dal Veneto, dove tutto è iniziato e dove la Miteni ha prodotto un tipo di Pfas per oltre 50 anni e ora deve affrontare un processo per disastro ambientale.
In Piemonte il gruppo chimico belga Solvay produce tuttora Pfas.
In Toscana una nuova indagine di Greenpeace conferma che alcuni distretti industriali contribuiscono alla contaminazione da Pfas delle acque superficiali. E poi nelle Isole Faroe, tra Gran Bretagna e Islanda, dove molti abitanti presentano tracce di Pfas nel sangue e dove il maggior esperto di queste sostanze, Philippe Grandjean sta conducendo una ricerca sugli effetti sul corpo umano.
Sulla pericolosità di queste sostanze si è interrogata l’Unione Europea: Norvegia, Svezia, Germania, Paesi Bassi e Danimarca hanno chiesto che i Pfas vengano vietati in blocco. L’Italia non si è pronunciata in merito, nonostante sia uno dei Paesi europei più inquinati dai Pfas. Migliaia di persone che vivono nelle zone contaminate soffrono di patologie anche mortali e l’industria sta cercando di correre ai ripari con nuove tecnologie per “vivere senza Pfas”. Ma liberarsi da queste sostanze tossiche non è facile e bonificare fiumi e terre avvelenati richiede un costo molto alto tanto che la giornalista di Le Monde Stéphane Horel ha detto: “l’inquinamento dei Pfas rappresenta la bancarotta dell’epoca moderna”.  
“Stop ai veleni” è un racconto di Riccardo Iacona, con Teresa Paoli, Paola Vecchia, Giuseppe Laganà, Raffaele Marco Della Monica, Fabio Colazzo, Matteo Del Bò. 

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.